L’autore della «Sonata per flauto e pianoforte» pubblicata dall’AIF, la cui promettente carriera fu interrotta da una prematura scomparsa, viene ricordato da una delle figlie.
Non è cosa facile per me, sua figlia, parlare di Mario Pilati, il musicista napoletano scomparso giovanissimo – aveva appena 35 anni – nell’ormai lontano 1938.
Tante le ragioni dì una simile difficoltà, non ultima quella di non averlo quasi conosciuto. Nel giro di pochi anni, infatti con la dolorosa scomparsa anche di mia madre, la persona che più di ogni altra ne avrebbe potuto mantenere vivo il ricordo, siamo restate, le mie sorelle ed io, tagliate fuori per sempre dal loro comune passato e da ogni tentativo di reintegrarlo.
Risalendo a ritroso, nel tempo, è cosa ardua per me riconoscere il labile confine tra le mie personali e molto limitate memorie di lui e quanto, invece, venendo da altrui esperienze e ricordi, vi si è aggiunto, sedimentando in stratificazioni successive nel fondo della mia coscienza, fino a forgiare quell’immagine paterna che tanto mi mancava e di cui sentivo doloroso il bisogno.
Mario Pilati all’epoca del servizio militare a Milano nel 1923-24
Certo, restava la sua musica, e quale mezzo migliore per coglierne appieno la personalità e ricreare l’immagine paterna, nella sua interezza, di uomo e di artista, che mi faceva difetto? Ma – ed ecco l’altro motivo che mi impedisce di parlare di lui in piena cognizione di causa – non sono una musicista, purtroppo, anche se posseggo, come tutti, una infarinatura di cultura musicale, giusto quel tanto che mi permette dì coltivare la musica da fruitrice appassionata, estremo retaggio che mi viene direttamente da lui. Come avrei voluto saper leggere, così come si fa con un qualsiasi altro libro fatto di parole, uno spartito di musica sua, poterne cogliere il senso riposto, decifrarne il mistero! Ma, questa estrema consolazione essendomi negata, mi contentavo, nel corso degli anni, di bere avidamente le parole di quanti l’avevano conosciuto. Ne parlavano tutti, sempre, con immutata ammirazione e affetto, esprimendo tutto il rimpianto per lo scempio prodotto, con la sua morte, di un sì gran talento che si accompagnava a rare qualità umane.
Tutta la mia vita è stata marcata da questa inesausta curiosità che andava crescendo nel tempo e insieme alimentava un terribile senso di colpa per non saper fare nulla di concreto in favore della sua musica. Qualcosa che valesse a sottrarlo a quell’oblio che, rarefacendosi le sue esecuzioni con il trascorrere degli anni, si faceva sempre più incombente, fino a sommergerlo completamente.
Ma, nonostante tutta la buona volontà di cui mi sentivo capace, le difficoltà nelle quali mi dibattevo erano immense per le mie modeste forze.
Vivevo all’estero da più di trent’anni, priva di qualsiasi contatto con l’ambiente musicale italiano a cui avrei dovuto rivolgermi, nel tentativo di riprendere il discorso interrotto su Mario Pilati. Né ero in grado di avviare una qualsiasi valutazione critica della sua musica, per parlarne poi con competenza, e convinzione, presentandolo alle nuove generazioni di musicisti che non lo conoscono affatto. Eppure sentivo che dovevo mettermi all’opera: pur senza avere un preciso disegno né un piano d’azione ben definito, sentivo che sarei stata capace di trovare le parole giuste, atte a suscitare l’interesse dello studioso che volesse prenderne cura e potesse finalmente riproporre Mario Pilati e la sua musica alle giovani generazioni.
Ed è quello che ho fatto, semplicemente, un bel giorno, decidendomi ad avviare finalmente un discorso, sentito tanto necessario quanto continuamente rinviato.
Ne è stata spinta iniziale, del tutto imprevista come sempre avviene, una telefonata, dirottata a me da Gianandrea Gavazzeni, che in Pilati aveva avuto il primo maestro di composizione e insieme l’amico, coltivandone per tutta la vita l’affettuoso ricordo.
Al suo tavolo di lavoro, nel nel suo studio, via Teatro Biondo a Palermo
negli anni 1933-1935
Era Roberto Cognazzo che, con il flautista Mario Carbotta, stava preparando, per conto della Nuova Era di Torino, un CD dedicato a musiche per flauto di compositori italiani della prima metà del secolo. I due musicisti avrebbero voluto includervi una «Sonata» per flauto di Mario Pilati, premio Coolidge 1927, di cui avevano trovato menzione: nel Dizionario Enciclopedico Universale della Musica e dei Musicisti [DEUMM] ma del tutto ignota agli interpreti moderni. Per quante ricerche essi avessero intrapreso, perlustrando a fondo biblioteche e conservatori di tutta Italia, la «Sonata» di Pilati rimaneva assolutamente introvabile. Nella loro ricerca erano arrivati fino a me e, senza nulla sospettare dell’importante svolta che avrebbe impresso alla mia vita quella loro richiesta, avevano dato il via a quello che sarebbe diventato in breve il mio lavoro di tutti i giorni, il compito a cui ho consacrato ormai tutto il mio tempo e le mie energie: riportare all’attualità la musica e il ricordo di Mario Pilati.
Dopo 4 anni di intensa attività – che è consistita nel riprendere contatto con editori e musicisti per renderli attenti a una musica che andava recuperata – posso oggi affermare, consapevolmente, che questa comincia a riapparire nei programmi di concerto e, soprattutto, a interessare ì giovani interpreti.
Sono particolarmente fiera di essere riuscita a rintracciare, quasi miracolosamente, la sola copia fotografica esistente in Italia della «Sonata» per flauto, l’originale manoscritto essendo stato offerto dall’autore, all’epoca del premio, a Mrs Coolidge. L’intesa era che essa ne avrebbe conservato l’esclusività per alcuni anni, in modo da poterla fare eseguire a suo piacimento, da interpreti da lei sempre scelti tra i migliori, nei concerti e festival che infaticabilmente organizzava in tutto il territorio degli Stati Uniti.
Per quanto strano possa sembrare, quest’opera, che poteva vantare una così bella carriera oltreoceano, non ha trovato un editore in patria. Si accenna alla possibilità di un’edizione nella corrispondenza, da me rinvenuta recentemente, intercorsa tra l’autore e alcuni editori stranieri, il parigino Alphonse Leduc e lo svizzero H. W. Draber di Morcote.
Ancora oggi, l’originale della Sonata per flauto di Mario Pilati, con la dedica autografa alla mecenate americana, è conservata nella sezione «manoscritti rari ed autografi». non accessibile al pubblico, della Fondazione Coolidge, nella Biblioteca dei Congresso, a Washington.
La copia fotografica voluta da Mrs. Coolidge, l’unica esistente in Italia, custodita nella Biblioteca del Conservatorio di Musica «San Pietro a Majella» di Napoli, ne era stata prelevata, nei tardi anni Cinquanta, e affidata a un musicista che avrebbe dovuto eseguirla nel concerto dì commemorazione pilatiano, a vent’anni dalla morte, che non si era più fatto. Aveva così dormito più di 35 anni dimenticata tra le sue carte.
Ma proprio nei giorni in cui ero alla ricerca di questa sonata introvabile, mi trovai sui passi del distratto musicista, ormai in pensione, in Conservatorio proprio nel giorno in cui mi ci recavo io, nel rituale pellegrinaggio come ad ognuno dei miei sempre più rari soggiorni napoletani. Grazie a tale fortunoso rinvenimento, la Sonata per flauto di cui nel settembre 1994 era apparso, con ottima recensione, anche il CD della Nuova Era, è stata finalmente stampata a cura dell’Accademia Italiana dei Flauto [AIF] nella primavera del 1995, per riprendere, dopo un letargo di quasi settant’anni una carriera cominciata sotto i migliori auspici.
Il flautista Mario Carbotta l’ha eseguita anche in concerto a Bari e a Torino mentre i giovani che l’hanno eseguita nelle semifinali dei 3º Concorso Internazionale dì Flauto Syrinx, che sì è tenuto a Roma dal 29 ottobre al 2 novembre 1997, ci permettono di credere nel suo prossimo reinserimento in repertorio.
Altri concerti sono seguiti via via, marcando il sempre crescente interesse, soprattutto da parte dei giovani musicisti, per il giovane compositore dimenticato. A Reggio Emilia, nell’aprile 1995, l’Orchestra dell’Università di Parma ha riproposto all’ascolto, la «Suite per pianoforte ed archi», composta nel 1925, a Cagliari dove insegnava la composizione nell’allora Civico Liceo Musicale, avendone vinta la cattedra al suo primo concorso, subito dopo il diploma, conseguito prima di aver ancora compiuto ì 20 anni.
Ancora a Bari, per «Il Coretto» e a Udine, per «Gli Amici della Musica», il Quintetto Materassi ha eseguito, nella scorsa stagione 1996, il «Quintetto» in re per archi e pianoforte (presto in CD), composto nel 1927, durante il felice periodo milanese.
Alla stessa epoca appartiene anche la «Sonata» per violoncello e pianoforte che il duo Martucci ha riportato in luce, con successo, in concerti che hanno avuto luogo, recentemente a Roma all’Ambassade de France près le Saint- Siège- Centre d’études Saint Louis de France, e a Milano nel corso del 1997. Per non dire delle esecuzioni all’estero: quella di Andrea Griminelli alla Carnegie Hall di New York nel novembre 1995, con la «Sonata» per flauto, ripetuta nel maggio 1997 da Jörg Lingenberg alla Fondation Luis Moret a Martigny, in Svizzera. E anche l’Orchestre de Chambre de Lausanne, in uno dei suoi concerti d’abbonamento 1996-97 dati in collaborazione con la Radio Suisse Romande – Espace 2, ha offerto ad un pubblico attento e sempre più convinto, la Suite per archi e pianoforte. E poi «Gli echi di Napoli» (in cui Gianandrea Gavazzeni rintracciava «[…] un napoletanismo di tinta antica […] effuso e arricciolato e descrittivo […]» Napoli osservata in quel suo mescolato romanticismo aristocratico e popolaresco […] danno, esatta, l’idea di un’attitudine osservatrice e ricreatrice […]») presentati in concerto, al pubblico svizzero, nel 1996 dalla Fondation L’Estrée di Ropraz, VD. Sono pagine deliziose che non possono non sedurre anche l’ascoltatore più esigente.
Altri concerti, ne sono sicura, verranno. Perché, ormai, la ripresa è iniziata e il pubblico e i giovani interpreti mostrano di amare questa musica già per tanto tempo, e ingiustamente, dimenticata.
Sulla spiaggia di Mondello-Palermo con le figlie Anna Maria (a ds. nella foto) e Lauretta (a sin.) estate 1935 (o forse 1936)
Chi, infatti, conosceva davvero Mario Pilati, che era nato nel lontano 1903, o poteva affermare di averne studiato l’opera, prima d’ora? Non c’è più nessuno, ormai, dei suoi amici, colleghi o amatissimi allievi – tra questi Gianandrea Gavazzeni, Giacomo Saponaro, Orazio Fiume, per non citarne che alcuni tra i prediletti – che, superstiti del naufragio di un’epoca (alla quale mio padre, e mi perdoni se oso affermare tanto, forse per sua fortuna, non ha assistito) abbia potuto opporsi all’ondata dei tempi nuovi che andava tutto sommergendo e, condannando insieme buoni e cattivi, faceva giustizia dei passato recente.
Per lunghissimi anni dopo la sua morte, Mario Pilati doveva rappresentare, per le giovani generazioni di musicisti e studiosi della musica, null’altro che un nome tra gli altri, in un elenco di compositori di un’epoca passata, una voce nei dizionari musicali: nessuna ricerca musicologica, nessuna esecuzione, se non sporadica, che non bastava a diradare il drammatico oblio che pesava su di lui e sulla sua musica. Eppure, nulla, nel suo percorso musicale rapidissimo e felice, lasciava presagire una tale sorte.
Aveva cominciato giovanissimo a comporre, d’istinto, prima ancora di ricevere una qualsiasi formazione in materia di composizione. Vi potrà accedere soltanto dopo insistenti preghiere e lo schierarsi dalla sua di una madre infinitamente più sensibile alle aspettative dell’adolescente di quanto non lo fosse il padre, autoritario e tirannico, secondo le buone regole della vita familiare ottocentesca.
Dovrà piegarsi ai suoi voleri e concludere di buon grado gli studi che erano stati scelti per lui, conseguendo un diploma di ragioniere, sicuramente molto più valido, agli occhi di quell’illuminato genitore, della perdita di tempo che certamente erano per lui gli studi di composizione, ardentemente auspicati da quello strano e incomprensibile figliolo.
Che aveva già una notevole cultura, e non soltanto musicale, come testimonia Alfredo Sangiorgi che lo ebbe compagno in quegli anni di studio e di formazione. Avido di imparare, assimilava con il suo ingegno vivissimo quanto più poteva, trascorrendo tutto il suo tempo, la sua adolescenza, sui libri. Aveva studiato perfino il greco e il latino da solo, racconta con ammirazione il compagno di studi, ed era addirittura in grado di tenere un discorso nella lingua di Cicerone. Otterrà finalmente di essere iscritto al Liceo Musicale di Napoli dove ebbe la fortuna di incontrare Antonio Savasta che, riconoscendo le doti straordinarie di quel precocissimo allievo, lo volle iscritto nella sua classe di Composizione nel ben più prestigioso Conservatorio di Musica «San Pietro a Majella». Aveva solo quindici anni e vi rimase, bruciando le tappe, fino al diploma, conseguito nell’estate del 1923, con il massimo dei voti e la lode. E non aveva ancora compiuto vent’anni !
Da allora prese il volo e l’ascesa fu rapidissima, sempre primo e vincitore di tutti i concorsi a cattedre a cui si presentava e di tutti i premi ai quali concorreva. A ventun’anni si trasferiva a Cagliari, titolare della cattedra di Composizione in quel Liceo Musicale dove rimase fino al 1926, tenendo anche le classi di Storia della Musica e di Direzione d’orchestra. Vi maturò una bella esperienza di insegnante, raccogliendo anche notevoli successi come pubblicista, critico musicale, organizzatore di concerti e direttore d’orchestra. A Cagliari aveva diretto, infatti, con gran successo, anche la prima esecuzione della sua Suite per pianoforte e archi composta nel 1925, durante il suo soggiorno nell’isola.
Nel 1926, sentendosi pur sempre tagliato fuori dal mondo culturalmente più vivo al quale aspirava, malgrado il salto nel buio, la perdita di uno stipendio fisso e tutti i vantaggi a cui con la sua decisione rinunziava, lasciò la sua cattedra al Liceo Musicale e la Sardegna per stabilirsi a Milano. Gli inizi furono molto difficili in questa città sicuramente più viva e interessante dove però, grazie al suo coraggio e alla sua determinazione, riuscì ad affermarsi come compositore in breve tempo mentre, per mantenersi, si vedeva costretto a malincuore ad accettare mansioni diverse, in campo musicale, che lo distoglievano da quello che considerava il suo impegno più grande: lo scrivere musica sua. Fu critico, corrispondente di riviste musicali, maestro accompagnatore al pianoforte, maestro sostituto, direttore d’orchestra, continuando sempre a dedicarsi all’insegnamento, sua seconda grande vocazione, sia pure in forma privata, Casa Ricordi, che gli aveva affidato la riduzione per canto e pianoforte di opere di autori diversi iscritti nel suo catalogo, cominciava anche a pubblicare la sue composizioni che venivano presentate con successo a Convegni e Mostre, come la Suite diretta da Sergio Failoni alla Mostra di Bologna del 1927.
Fu questo il periodo più felice della sua vita, di grande attività e creatività che gli valse riconoscimenti prestigiosi. Basterà citare per tutti il premio Coolidge 1927 – che la mecenate americana aveva istituito per proporre i compositori europei da lei premiati a modello delle giovani generazioni di musicisti americani – che aprì una bella carriera oltre oceano alla musica di Mario Pilati. Le esecuzioni si succedevano sempre più frequenti, affidate a interpreti di grande valore: il flautista Barrère per la «Sonata» (da lui eseguita nei Festival Coolidge di Chicago e di New York, mentre in quelli di Roma e di Napoli del 1931 gli interpreti furono Marcel Moyse al flauto e Alfredo Casella al pianoforte), Koussevitsky per la «Suite» per pianoforte ed archi e, più tardi, Dimitri Mitropoulos per il «Concerto» in do maggiore (che aveva diretto, in prima assoluta, al Festival di Musica Contemporanea di Venezia, al Teatro della Fenice, nel settembre 1938, a soli due mesi dalla morte dell’autore che vi aveva colto – estrema consolazione – il suo ultimo grande successo).
San Candido estate 1937
La parentesi milanese, dicevo prima, sarà la più felice della sua vita, per gli incontri interessanti, le amicizie che dureranno tutta la vita, le soddisfazioni che gli venivano dal suo lavoro e dalla sua attività di musicista e anche per avvenimenti più intimamente legati alla sfera degli affetti familiari: si era sposato e a Cremona era nata la prima della sue tre bambine. È in questo periodo, dopo il successo della «Suite» – come abbiamo detto composta ed eseguita in prima assoluta nel 1925 a Cagliari e poi ancora eseguita alla Mostra dei ‘900 musicale di Bologna del 1927 – che aveva attirato sul giovane compositore l’attenzione dell’intero mondo musicale italiano che vedono la luce alcuni dei lavori suoi più felici. La «Sonata» per violino e pianoforte, la «Sonata» per violoncello e pianoforte, il «Quintetto» per quartetto d’archi e pianoforte, le «Bagatelle» per pianoforte, il «Preludio, aria e tarantella», per violìno e pianoforte procurano al giovane compositore una solida reputazione nell’ambito della musica da camera. Ma il periodo felice volgeva al termine. Vincitore di nuovi concorsi per cattedre sempre più impegnative nei conservatori di Napoli, Palermo e poi ancora Napoli, tornerà nella sua città per morirvi, il 10 dicembre 1938, vinto da una malattia che non gli concesse tregua né gli darà scampo. La malattia e la sventura ebbero ragione di lui, proprio quando si era accinto il lavoro dì più gran mole, quello da cui si attendeva la definitiva consacrazione: l’opera di ambiente e dialetto napoletano, «Piedigrotta, una gara lirica tra i rivali quartieri, cittadino e marinaro, di Toledo e di Santa Lucia per la conquista della palma della vittoria. Ma era soprattutto la celebrazione di Napoli, regina incontestata della melodia attraverso i secoli, dall’epoca più remota che aveva udito sui suoi lidi risuonare l’armonioso canto delle Sirene.
Con la sua morte anche la sua musica, che aveva rappresentato con successo nel mondo la giovane musica italiana nei più importanti raduni e festival internazionali e appariva ancora nei concerti dei più prestigiosi solisti e direttori d’orchestra – Heifetz, de Vecsey suonavano il suo «Preludio, aria e tarantella» la cui versione per orchestra era eseguita in America da Mitropoulos e in tournée europea oltre che alla Scala, da Victor de Sabata – a poco a poco, si spense. Non voglio credere che sia davvero per sempre; io sono qui per vedere, finalmente, la luce della ripresa.
Testo pubblicato sulla rivista SYRINX trimestrale di cultura e Informazione dell’Accademia Italiana del Flauto Anno X N° 36 Aprile-Giugno 1998
Alfredo Sangiorgi, catanese, nato il 25 ottobre 1894, era stato allievo di Schönberg nel 1922-23 a Vienna. Rientrato in Italia aveva svolto attività didattica a Palermo (1935) e Bolzano (dal 1941). Aveva conosciuto un momento di notorietà con la Cantata a Bellini (1935). Quindi nel dopoguerra ottenne buoni risultati con due lavori teatrali La mendicante (Roma, 1954) e San Giovanni Decollato (Bergamo, 1958). Morì a Merano il 18 luglio 1962.